venerdì 1 gennaio 2016

parigi vista dalle figi

    Sì: ci sono le spiagge di sabbia bianchissima e finissima, il mare bluissimo, le noci di cocco rotondissime e un mucchio di altre cose da isola che non si riesce a scrivere senza abbracciarle a un superlativo assoluto. Inoltre, se fate snorkeling (e qualche mezzora sott'acqua ce l'ho passata) vedete pesci a strisce bianconere e coralli come quelli di Superquark, e se fate immersioni (ma io non ne faccio) immagino vediate cose ancora più mirabolanti.
    Ecco, adesso possiamo incominciare.




    una mattina

    La prima cosa che imparo, delle Figi, è che la domenica mattina è tutto chiuso tranne le chiese. Me ne accorgo dopo aver girato a caso per un po', senza aver trovato un negozio né un bar aperto, e avendo visto quasi nessuno in strada. In compenso, di chiese ce ne sono quante ne vuoi, e di varie religioni. Decido di entrare in una, anche solo per avere un'idea. Fa cultura, mi dico. E decido di cercarne una cattolica. Non per un motivo particolare, ma diciamo che quando entro in una chiesa, specie se sto dall'altra parte del mondo, ho sempre paura di sbagliare qualcosa, di urtare sensibilità, e allora mi convinco che se non altro in una chiesa cattolica ho qualche possibilità in più di indovinare come muovermi.
    Cerco una chiesa cattolica, chiedo a una vecchina che incrocio per strada.
    La prima a destra e poi sempre dritto, risponde la vecchina, ma solo dopo dieci minuti in cui gli ho raccontato chi sono e da dove vengo e soprattutto mi ha raccontato chi è e che è cattolica anche lei.
    Distante?
    Ma no. Sarà una mezz'ora...
    Mica poco, mi dico. Ringrazio e mi incammino.
    Così, la seconda cosa che imparo, delle Figi, è che la gente risponde a caso. Non lo fa per cattiveria o svogliatezza. Credo lo faccia, innanzitutto, perché qualcuno deve avergli messo in testa che non rispondere è maleducazione. Quindi, nel caso in cui non sappiano la risposta, i figiani inventano. E poi credo lo facciano perché sono sempre con la testa da un'altra parte, completamente apragmatici. Imprecisi, approssimativi. Non danno ai numeri il valore che gli diamo noi. Soprattutto, non danno al tempo il valore che gli diamo noi. Per dire, cinque minuti possono tranquillamente essere arrotondati a una mezz'ora.
    Insomma, mi incammino seguendo le indicazioni della vecchia e dopo cinque minuti sono in chiesa. La messa è quasi finita, ma faccio in tempo a gustarmi un coretto gospel tropicale, con tanto di accompagnamento di chitarre. E soprattutto, faccio in tempo a stupirmi del fatto che a fine messa apparecchino una lunga tavolata in fondo alla chiesa e si faccia colazione sociale con tè, frutta e pasticcini. Io mi siedo e approfitto.



    un'altra mattina

    Le Figi sono un posto lontano e diverso, dove di notte c'è sole e al mattino fa buio. È per questo motivo che il mio racconto è un racconto di mattine: un racconto col jet lag.
    Sono da tre giorni in un villaggio all'interno dell'isola più grande, ospite di una famiglia in cui l'uomo di casa somiglia a Diego Abatantuono nelle sue interpretazioni più selvagge. È successo che a un certo punto mi sono sentito un po' stufo di oceano isolotti e turisti. Così ho pensato di avventurarmi all'interno e ho scelto un villaggio di venti capanne, senza elettricità, coi tetti di bambù e le galline per strada, perso dentro un parco naturale. Gli autobus non ci arrivano: dalla città più vicina mi ha accompagnato qui un tassista abusivo. Sono arrivato portando in dono un chilo di radici di kava, una pianta della famiglia del pepe che si macina per farne una bevanda del colore e sapore dell'acqua sporca, che però ti rilassa e addormenta la lingua.
    Faccio colazione con pancake bruciacchiati e cassava, la loro patata dolce che mettono dappertutto. Poi mi lancio in un hiking incosciente dentro la foresta. Non è pericoloso, mi hanno assicurato, e in effetti non mi sembra di incrociare animali troppo velenosi. Dalla vetta c'è un panorama che mescola isole e foreste, mare e monti. Cose da fotomontaggio scriteriato. Torno in tempo per pranzo (verdure cotte, riso e l'immancabile cassava) e subito dopo chiedo a Diego Abatantuono se può chiamarmi il tassista con cui sono d'accordo perché mi riporti in città.
    In attesa che il tassista arrivi, vado a giocare a rugby coi ragazzini del villaggio. Cioè, loro giocano e io faccio foto. La palla è una bottiglia di plastica. C'è sole e fa caldo. Nelle capanne vicine, uomini e donne riposano; devono avere un loro concetto di siesta post-pranzo. Intorno, pascolano due cavalli e tante galline.
    Abatantuono torna dopo un paio d'ore e lo vedo che scuote la testa in maniera solenne. Del resto, lui fa tutto in maniera solenne. Il tassista ha telefonato e non riesce a venire, dice. C'è un albero in mezzo alla strada che blocca il passaggio. Ha chiamato in città perché vadano a spostare l'albero, dice. Bisogna aspettare.
    Io sono stanco e accaldato e la storia sembra un po' troppo da film. Detto tra noi, mi viene il sospetto che Abatantuono se la sia inventata per farmi restare una notte in più. Nel frattempo, si è raccolta intorno a noi una buona parte della popolazione del villaggio. Si parla di questo albero, di cosa si può fare, di chi eventualmente chiamare. Quanto ci vuole a piedi fino alla città?, chiedo. Gli uomini si guardano. Sarà una mezz'ora, risponde - giuro - una donna. Ci ho messo un'ora in macchina, è chiaramente impossibile. No, di più, mi conferma Abatantuono. Visto che sembra una partita a poker, decido di bluffare. Beh, vado a piedi, dico io; ho l'aereo stasera, non posso proprio rimanere qui. Spero che così dicendo qualcosa si smuova. Gli uomini si guardano. Un'altra donna dice Ma no, con quello zainone... E però non si smuove nulla. Ho l'impressione che se fosse per loro, potremmo rimanere immobili per giorni: io, loro, l'albero in mezzo alla strada. Ci salutiamo e, niente, mi lasciano partire.
    Mi metto in marcia, sole cocente e zainone in spalla, e dopo l'escursione della mattina non è esattamente la cosa al mondo che abbia più voglia di fare. Non c'è ovviamente nessuno, per strada. A farmi compagnia, solo le insegne di legno con le indicazioni dei chilometri; una ogni chilometro, credo. Dopo un'ora e mezza - ebbene, sì - vedo un tronco d'albero in mezzo alla strada. Che la blocca completamente. La terza cosa che imparo, delle Figi, è che i figiani non bluffano.
    Subito dopo il tronco - ebbene, sì - c'è il tassista parcheggiato che aspetta, evidentemente ormai da ore. Non so esattamente cosa. Forse me, forse il soccorso stradale, forse semplicemente che faccia buio.




    l'ultima mattina

    L'ultima mattina, la passo con Faith, che è una ragazza finalmente figiana, conosciuta su Tinder.
    ciao belle foto.
    grazie.
    finalmente ti ho trovata!

    ci conosciamo?
    no ma ti cercavo da un sacco di tempo.
    hahahha... lo scrivi a tutte?
    ma no. cioè, ciao belle foto sì... ma il resto no.

    Lei pomeriggio e sera è impegnata, io riparto il giorno dopo: non ci resta che un rapido brunch. Siamo a Suva, la capitale, e il locale l'ha scelto lei. Si chiama The Republic of Cappuccino, e io, scettico e italiano come sono, avrei sinceramente preferito qualcos'altro. Però devo ammettere che bevo qui il miglior espresso di tutto l'arcipelago.
    Ma Faith è il tuo vero nome?
    Never mind.
    Faith è grassottella (mi ha autorizzato a scriverlo) ma ha un bel viso (non le ho chiesto il permesso ma lo scrivo). E ha un tatuaggio sotto la spalla sinistra, che ne condiziona i movimenti e le torsioni, mi dice, a seconda del fatto che voglia o meno mostrarlo.
    E con me? Vuoi mostrarlo o no?
    Boh... Quando ho un appuntamento con un uomo, di solito cerco di mostrarlo. Ma il nostro, non ho capito bene cosa sia.
    La conversazione ha i pregi e i difetti di una conversazione di un paio d'ore con una persona che probabilmente, dopo quelle due ore, non vedrai più nella vita. In questo senso, è la conclusione appropriata di un viaggio in cui hai vissuto tutto con la più o meno marcata consapevolezza che le cose che stai vedendo, probabilmente, non le rivedrai mai più.
    Certo che qui piove ogni giorno; almeno un quarto d'ora di pioggia non te lo toglie nessuno, dico per rompere il ghiaccio.
    Sì, e invece al nord non vedono acqua da mesi.
    È incredibile tanta differenza in un'isola così piccola.
    È una conversazione che parte, inevitabilmente, dai luoghi comuni locali, che lei sa e io ho imparato.
    Anche tu giochi a rugby?, chiedo.
    Ahah, no, io no. Mio fratello gioca. Qui un po' tutti.
    Ma invece a Ba e dintorni si gioca a calcio.
    Vero. Quante ne sai...
    Eh, sì, lunghe conversazioni coi tassisti...
    Faith sembra più rapida e reattiva della maggior parte dei figiani con cui ho interagito.
    Forse perché lavoro in albergo, e perché sono stata fuori, dice; anche in Europa, per un anno.
    Ma dai. Dove?
    Berlino. E Parigi.
    Nooo... Io ci vivo, a Parigi.
    Viene fuori che lei ci ha lavorato per sei mesi e ci ha lasciato la testa e il cuore, si lascia sfuggire con aria sognante. Se mi dici dove, quando torno te li cerco, rispondo. Lei ride. Ride anche troppo. Forse ho pescato per puro caso una battuta che funziona meglio secondo i canoni dell'umorismo figiano che secondo quelli occidentali, va' a sapere.
    Le racconto dei posti che ho visto e delle cose che ho fatto in queste tre settimane sull'isola.
    Poi mi faccio raccontare del suo lavoro, della sua famiglia, delle sue amiche. Ha uno dei migliori inglesi che abbia ascoltato alle Figi. Ma le sue frasi sono dense, annodate di tensione, sembrano venir fuori schiaffeggiate: il prodotto di un combattimento interiore, ipotizzo, tra un orgoglio un po' selvatico e un'innascondibile insoddisfazione.
    In molti usano Tinder qui?
    Macché, becco solo turisti. Però meglio così.
    Il brunch è semplice ma buono. Qualche insalata mista, bocconcini di pollo, muffin. Non le chiedo quanto tempo abbiamo ancora. Più o meno una mezz'ora, mi rispondo da solo.
    Mi piacerebbe andare a vivere altrove, dice.
    L'avevo capito.
    Voglio dire, per carità, qui è il paradiso...
    Capisco perfettamente.
    Fuori piove. Faith scherza che soltanto gli inglesi potevano inventarsi una capitale nell'area più piovosa dell'isola. Rido. Sorride. Al momento di salutarci, uno di noi due chiede Ma che facciamo, ce lo diamo un bacio finale takeaway? E l'altro di noi due risponde Ma no, non ha senso.
    Faith fa ciao con la mano e gira l'angolo. Nel farlo mostra evidentemente il tatuaggio sotto la spalla. Io vado dall'altra parte, guardo l'orologio e calcolo che voi state dormendo o facendo l'amore.


    È già passato quasi un mese. Nel frattempo, ho controllato e, se è vero che la terra è rotonda, come hanno sostenuto con forza Copernico e soprattutto il Risiko, allora è difficile trovare due punti del globo più distanti di quanto lo sono Parigi e le Figi.
    Con Faith, continuiamo a sentirci in chat, ogni tanto. Ci siamo raccontati la mezza giornata dopo esserci salutati, ci siamo lamentati delle feste natalizie troppo brevi, ci siamo augurati un felice anno nuovo. Uno di noi due pensa che questo scambio di messaggi non abbia alcun senso. L'altro di noi due continua a dirsi che alla fine un bacio non costava niente e ci sarebbe stato bene.



    epilogo

    Comprare un quotidiano locale.
    Comprare un giornale di annunci e vedere quanto costa un affitto, quanto costa una macchina, che lavoro si può sperare di trovare.
    Salire su un autobus senza finestrini. Accorgersi che a bordo c'è musica disco a palla. Accorgersi di essere l'unico bianco.
    Salire su un autobus che sembra pubblico e scoprire che invece è una comitiva di evangelici metodisti in gita. Lasciarsi comunque riaccompagnare in città.
    Comprare una scheda sim, anche solo per capire se aveva senso farlo.
    Entrare da un barbiere e tagliare i capelli.
    Ma anche perdersi nel mercato e scoprire che le banane le vendono solo a caschi interi. Comprare radici di kava. Non comprare cassava.
    Bere l'acqua del rubinetto almeno nelle città in cui dicono che si può farlo. Fidarsi è bene. Non fidarsi è meglio, ma è noioso.
    Mangiare dai venditori di strada.
    Mangiare pollo fritto.
    Mangiare solo nei posti non segnalati dalla Lonely Planet.
    Mangiare nel McDonald's e concludere che persino il McDonald's non è proprio uguale uguale al nostro.
    Chiedere indicazioni anche se si sa benissimo dove andare. O invece prendere a camminare a caso, e smettere solo quando si è proprio sicuri di essersi persi.
    Ma anche noleggiare una bici. O provare a farlo e accorgersi che non c'è modo di farlo.
    Fare conversazione coi tassisti per imparare i luoghi comuni locali.
    Chiedere alle persone se hanno mai visto l'Europa, o anche solo l'Australia; se sono ricche, se sono stanche, se sono felici.
    A dirlo in una frase, e secondo una definizione che sono andato affinando nel corso degli anni, per me viaggiare è, in mezzo a un mucchio di altre cose ma prima di tutte le altre cose, andare in un posto e immaginare come sarebbe viverci. Da un punto di vista strettamente teorico, la prima condizione (andarci, nel posto) non è neppure indispensabile. Però è utile, decisamente utile. E di solito divertente.




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