domenica 1 marzo 2015

sotto le stelle del rex
[prima parte]






    Incontri

    Quando arrivo c'è già fila e Marcello (ma prometto che dal prossimo racconto comincio a frequentare francesi) è già in fila. Ci abbracciamo come vecchi amici, compaesani, emigranti del periodo tra le due guerre; un po' per quel senso di solidarietà speciale che hanno gli italiani che si incontrano fuori Italia, e un po' perché forse nessuno di noi due si fidava al cento per cento di un appuntamento dato settantadue ore prima, in aeroporto, da un mezzo sconosciuto.
    Ci siamo trovati a una conferenza, nel sud della Florida, e abbiamo scoperto di aver programmato entrambi qualche giorno di vacanza a New Orleans. Il problema è che io arriverò lì tre giorni più tardi e ho un vecchio Nokia 3310 dual band che negli Stati Uniti riesco a usare al massimo come sveglia. Allora facciamo una cosa d'altri tempi: ci diamo appuntamento per il venerdì sera, alle 20, davanti la Preservation Hall; chi arriva prima, aspetta.

    Più o meno un anno più tardi, più o meno un mese fa, ci ritroviamo a un'uscita della RER. Marcello mi ha scritto che ha un volo da Charles de Gaulle per il Sudamerica e, se per me va bene, si ferma un paio di giorni a Parigi. Ha ancora i capelli lunghi e l'aria persa di New Orleans; non sembra molto cambiato. Io, nel frattempo, ho comprato uno smartphone, attivato un account Facebook e messo su un blog. Ma a parte la svolta social, non devo essere troppo cambiato neanch'io.
    Insomma ci riconosciamo subito e lo accompagno nei miei diciassette metri quadri, in cui per l'occasione sono riuscito a far aggiungere una brandina. Sorprendentemente, resta comunque spazio per posare una valigia, appendere i giubbini, usare il bagno, preparare una pasta un po' insipida con due melanzane fuori stagione, e mangiarla sulla scrivania, seduti io sul letto e lui sull'unica sedia.
    Ci raccontiamo e domandiamo un po' di cose, saltando a caso tra lavoro, musica indie, città del mondo. Lui si scusa che non mi ha portato nulla di italiano, ma d'altra parte immagina qui a Parigi si trovi di tutto. Ma infatti, dico io, sta' tranquillo. Però non sono venuto da Milano a mani vuote, aggiunge, e nell'aggiungerlo pesca qualcosa dalla tasca della valigia.
    Quello che tira fuori è un foglio A4 stampato fitto. Me lo passa. Lo leggo. E capisco che sono due biglietti, di balconata inferiore, per il concerto di Paolo Conte al Grand Rex.


    Sotto le stelle del Rex

    Da fuori, il Grand Rex sembra un angolo di Las Vegas, ma dentro è un trionfo di art déco. Dicono contenga la sala cinematografica più grande d'Europa, ed è per questo che poi ci fanno anche concerti. Noi entriamo quasi titubanti; ci sembra di non essere appropriati al luogo, di essere troppo poco eleganti, troppo poco intellettuali, forse persino troppo poco alti. Il fatto che intorno la maggior parte della gente sorrida e parli italiano ci rassicura un po'.
    La sala ha un'atmosfera orientale che sa di presepe, con ai lati un abbraccio di palazzi veneziani, palme, statue, minareti. E le luci hanno qualcosa di magico, in questo loro apparire basse e soffuse senza esserlo davvero. Infine c'è il soffitto, che io l'avevo letto nella guida, ma Marcello no e rimane incantato e dice una parolaccia milanese. Sembra proprio quello dei presepi: piazzi una lampada a luce calda dietro un cartoncino scuro e bucherellato, e hai fatto la volta celeste.
   Ci mettiamo un po', a trovare i nostri posti, ma principalmente perché siamo emozionati, e lo facciamo senza davvero impegnarci, e secondo me anche con un leggero desiderio inconscio di perderci.



    Dopo una mezzora, si abbassano le luci e si alza il sipario.
    Paolo Conte usa un trucco: si porta dietro un pianista che gli assomiglia. A onor del vero, il pianista ha un tipo di pelata leggermente differente e indossa un paio di sottili occhiali neri, ma allo sguardo di uno spettatore della balconata inferiore può tranquillamente spacciarsi per Paolo Conte. Così quando i musicisti entrano (e lui, il pianista, bastardo, lo fa per ultimo), prendono posto e iniziano a suonare, molti degli applausi sono applausi di chi pensa che in scena ci sia Paolo Conte.
    Poi succede che, dopo un minuto e mezzo di ouverture, entra Paolo Conte.
    E allora c'è un momento di leggera confusione. Però non in tutti. Ce ne sono alcuni – uno proprio vicino a me – che loro invece l'avevano capito e ci tengono a far capire che loro l'avevano capito. Si alzano, lentissimamente, e applaudono. E anche questo è un gesto che fanno lentamente e in modo enfatico, come a rendere chiaro che loro, prima, mica avevano applaudito.
    Il concerto – va da sé – è un gran concerto. Alla fine, Paolo Conte ringrazia e lo fa da seduto, inchinandosi senza neanche spostarsi dal pianoforte, in maniera aggraziata, e muovendo il braccio destro da una parte e dall'altra, come a voler distribuire equamente, verso le due ali dell'orchestra, tutti gli applausi che arrivano. Un signore.
    Intanto le luci fintamente soffuse si sono riaccese, gradualmente, in maniera molto natalizia. Io e Marcello ci gustiamo la scena e applaudiamo, insieme agli altri personaggi del presepe. Poi uno di noi due dice "io vorrei arrivare all'età sua come lui", e l'altro di noi due risponde "io vorrei arrivare all'età sua".


    – Hai presente quando canta "le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo"?   
    – Eh.
    – Secondo me vuol dire due cose. Che non si capisce perché le donne odiavano il jazz. Ma soprattutto che le donne odiavano il jazz, perché nel jazz non si capisce il motivo.
    – Quale motivo?
    – Non c'è una melodia chiara.
    – Può essere. Guarda dove ti ho portato, caro il mio esegeta...
    Luci rossastre, ampia vetrata, ingresso stile saloon e un'insegna al neon che – font Old Script – declama: Harry's New York Bar.
    Marcello dice una parolaccia milanese e poi chiede: – Quello di Hemingway?
    – Di sicuro, qua dentro Hemingway ci ha lasciato un pezzo di fegato. Però se intendi quello della canzone di Paolo Conte, mi sa di no. C'è un Harry's Bar anche a Venezia e penso parli di quello.
    – Capace che lo troviamo dentro.
    – Hemingway?



    Entriamo e selezioniamo il tavolo libero più giusto del locale. Poi io vado al bancone a prendere due cocktail: ovviamente Bloody Mary, che pare il Bloody Mary l'abbia tipo inventato Harry.
    Mi sembra in giro non ci siano né Conte né Hemingway. In compenso, seduto tre tavoli avanti al nostro, di spalle, c'è un vecchietto con la stessa pelata del pianista di Paolo Conte. Il vecchietto siede da solo, beve birra da una bottiglia e sembra farlo in un Harry's Bar tutto suo. Ogni tanto guarda il soffitto. Ogni tanto dondola indietro con la sedia. Ogni tanto agita un braccio e dà una frustata col polso a un tamburo immaginario. Soprattutto, continua a fare un frenetico su e giù con la testa, per accompagnare il tempo sincopato della musica da pianobar che percorre il locale.
    Torno da Marcello, appoggio i bicchieri sul tavolo, ci guardiamo negli occhi come si usa, e diciamo cheers. Il resto del post saranno chiacchiere maschili da cocktail bar: se credete, potete anche uscire qui; prima che chiuda la metro.
    – Ma noi stanotte come torniamo?
    – Tre opzioni: camminiamo per cinquanta minuti; prendiamo un taxi; aspettiamo l'alba.
    – Vediamo come si mette... Comunque, o la seconda o la terza.




    Lisbon Story

    Per i più romantici:
    Io, il mio ultimo concerto di Paolo Conte, l'avevo visto quattro anni fa a Lisbona, al Centro Cultural de Belem, in compagnia di una ragazza simpatica e carina che nel giro di qualche mese mi avrebbe devastato.
    C'eravamo incrociati a un corso di lingua portoghese, in cui avevamo scoperto di essere entrambi italiani e arpeggiato quei pochi accordi maggiori iniziali che vanno studiati e imparati; il resto sarebbe stato improvvisazione e blue notes.
    Lei era brillante. Aveva un sacco di pazienza coi gatti e le parole crociate. Cantava sotto la doccia, mentre saliva o scendeva le scale, e assolutamente in nessun altro momento della giornata. Amava i romanzi noir. Cucinava una pasta alla norma decisiva.
    Io le ho insegnato il linguaggio dei fiori e può darsi il nome di qualche stella. Le ho regalato un ukulele. Ogni tanto le facevo leggere qualche mio racconto e lei tutte le sante volte commentava Carino, però non c'è crescita dei personaggi.
    – È importante? – chiedevo io.
    – È vitale, – diceva lei, – sennò non è un racconto, è una fotografia.
    Abbiamo passato insieme tre mesi, quattro mesi, cinque mesi: dipende da quando inizi a contare.
    Perché le storie che mi capitano hanno questo, di particolare: non si capisce mai bene quando inizino (prima si esce insieme ma solo insieme ad altri; poi si esce insieme ma non si sta insieme; poi si sta insieme ma senza dirselo) però quando finiscono lo fanno con una randellata precisa e puntuale che potresti segnarti ora minuto e secondo.
    Questa randellata qui è arrivata una sera d'ottobre con un paio di frasi talmente banali che sono riuscito a dimenticarle. Mi ha lasciato una gran confusione in testa, tanta che ancora adesso, quando me lo chiedo o me lo chiedono, non riesco a stabilire se Lisbona sia la città della mia vita o il posto più squallido del mondo. Mi ha lasciato un filo di rancore. Mi ha lasciato una piccola ernia iatale da scivolamento che non le ho più perdonato. Mi ha lasciato l'ukulele che le avevo regalato.
    Mentre la guardavo allontanarsi, quella sera, e provavo a ripetermi le frasi che aveva pronunciato – ma davvero non riuscivo già più a ricordarle – beh, le ho giurato mentalmente che prima o poi sarebbe diventata la protagonista di un mio racconto; e col cazzo che l'avrei fatta crescere.



    – Però, pure tu: i nomi delle stelle... Ma che stai nell'Ottocento?
    – Guarda che il cielo di Lisbona è tipo quello del Rex. Mica stavamo a Milano.
    – E poi l'ukulele. Ma comprale due orecchini. Che cazzo di regalo è un ukulele?
    Rido.
    – Comunque è l'unica cosa buona che ha fatto. Lasciarmi l'ukulele.
    – Non me l'avevi mai raccontata, questa storia.
    – Non avevo mai bevuto un Bloody Mary.
    Approfitto per mandare giù un sorso.
    – A proposito... Ho visto il blog. Simpatico.
    – Grazie.
    – Ma non è che...?
    – Cosa?
    – Voglio dire: stasera, il concerto, l'Harry's bar; cioè, io non so bene dov'è che siamo, come funziona con queste circoscrizioni. Ma non è che...?
    È un incubo. Finirà che la gente non vorrà più uscire con me per paura di ritrovarsi nel blog. Finirà che risponderanno Ok, ma visto che c'è sole perché non facciamo una gita fuoriporta nelle banlieue?
    Marcello sorride.
    Ma io lo sto studiando. Perché la situazione mi è familiare. E lo so, lo so benissimo, che sta per chiederlo.
    Rigiriamo i bicchieri tra le mani.
    Beviamo un altro sorso.
    Lui fa pure un mezzo sbadiglio come se stesse pensando ad altro e il discorso fosse chiuso, ma io non ci casco mica.
    Lo guardo con aria divertita e anche un po' di sfida. Perché è scientifico. Adesso lo chiede.
    Si massaggia le nocche con un moto vago. Dà un'occhiata al vecchietto che continua a far su e giù con la testa. Passa un dito tra i capelli ad arricciarsi una ciocca. Prende fiato.
    E poi lo chiede.
    – Ma le storie che scrivi sono vere?

[continua qui]


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