domenica 8 febbraio 2015

un gioco dell'oca all'incontrario
[seconda e ultima parte]


    


    Ci siamo persi dentro al Louvre

    Dalle vetrate della caffetteria, si vedono un pezzo di piramide e un pezzo di cielo. E si intuisce che ha ripreso a scendere quella tipica pioggerellina francese che non bagna ma rompe.
    Noi, già da qualche minuto, abbiamo finito di bere le nostre cose.  Abbiamo iniziato a stiracchiarci sugli schienali delle sedie, massaggiare le tazzine, fare treccine con le carte delle bustine di zucchero. È quel momento in cui bisogna dire qualcosa che permetta di muoversi da tavola, senza dare l'impressione che si è stufi della situazione. In questo, le donne sono bravissime.
    – Toilette! – esclama Tanya puntando l'indice dritto davanti a sé, col tono di una che sta lanciando la pubblicità.

    Col passare dei minuti, inizio a preoccuparmi. Chiedo aiuto a una coppia di italiane che chiacchierano a voce alta proprio davanti a me. Entrano in bagno e tornano fuori dopo trenta secondi, dicendo che non c'è nessuna californiana bassa e carina che si chiama Tanya.
    Deve essere uscita in un momento in cui guardavo da un'altra parte. E lei deve avermi cercato in un'altra direzione. Vatti a fidare del senso d'orientamento di un'americana.
    Inizio a guardarmi intorno a caso. Vado un po' avanti, un po' a destra, un po' indietro. Nessuna traccia. Allora mi dico Calma, ragioniamo.
Non ho il suo numero di telefono. So il suo nome (a parte un dubbio su una lettera), ma non so il suo cognome. So che abita alla Cité Universitaire, ma non so in quale edificio. Devo assolutamente ritrovarla qui.
    Cosa fare in questi casi? Regola numero uno: controllare negli ultimi luoghi in cui si è stati insieme. Faccio due volte il giro di caffetteria, bookshop, antibagno. Niente. Regola numero due: aspettarsi all'uscita. Potrebbe essere una soluzione. Uscire, fermarmi davanti alla porta e aspettare finché non compare. Prima o poi dovrà passare di lì.
    No. Due problemi. Primo: potrebbe essere già uscita e, pensando che io sia andato via, essere tornata alla Cité. Secondo, e inattaccabile: il Louvre non ha una sola uscita.
    Quindi, ho il classico lampo di genio. Domandatevelo insieme a me: dove si darebbero appuntamento, dentro al Louvre, due che non possono darsi un appuntamento?
    Rifaccio di corsa le scale, saluto con un cenno la Nike di Samotracia, faccio l'occhiolino ai vari Giotto e Caravaggio che incrocio, attraverso a passi lunghi la Grande Gallerie, e finalmente ci sono.
    Davanti alla Gioconda, la solita, ingiustificata massa di persone. Le analizzo una per una. Le conto, persino. Ottantaquattro. Lei non c'è. Decisamente, non c'è. Sconsolato, faccio per proseguire e passo dietro l'enorme pannello che sorregge la Monna Lisa.
    – Sapevo che saresti arrivato! – esclama una voce di Tanya che mi sembra più suadente di quella di prima. Mi guarda con due occhi decisamente più verdi di prima e, carezzandomi una guancia con una malizia che prima non aveva, dice: – Meno male. Ho il biglietto del mio volo dentro il tuo zaino.
    Quindi appoggia le mani sui miei fianchi e mi dà un bacio a stampo sulla bocca. Lungo. Lunghissimo. Molto più lungo di quello che qualunque felicità e riconoscenza del momento possano giustificare.



    Tutto questo per dare l'idea di quante cose un uomo abbia il tempo di immaginare mentre aspetta una donna che è andata in bagno.
    Dopo quindici minuti esatti, Tanya viene fuori scusandosi. Ha le mani leggermente umide; e forse il lucido sulle labbra un po' più marcato; ma mi domando cosa abbia fatto nei restanti quattordici minuti e mezzo.
    – Che si fa, usciamo?
    – Prima devo togliermi uno sfizio, – dico io. – Andiamo a salutare Delacroix. La Liberté guidant le peuple!
    Tanya ride, mostra una specie di piccolo pugno chiuso, ed esclama a gran voce: – Allez! – che, dati il contesto e l'intenzione, credo di poter tradurre abbastanza fedelmente con un daje.



    Sostanzialmente per educazione


    Per i più romantici:
    Siamo stati bravi, pensiamo entrambi, mentre usciamo da dietro la piramide, soddisfatti dell'incontro della visita delle parole dette, e prontissimi a recitare un finale perfetto e maturo.
    Inizia lei. Dice che deve andare, ha mille cose da fare, una partenza da organizzare.
    Ci sta. Io ragiono un secondo e mezzo e concludo che non c'è molto margine. Ma qualcosa devo pur proporre. Insomma, siamo lì, e abbiamo appena passato insieme una giornata magica, di quelle che ogni tanto capitano e fanno bene all'autostima e alla motilità dell'intestino. Metteteci che io sono pure italiano. Ho l'impressione che suonerebbe davvero sgarbato salutarla e basta. Quindi, sostanzialmente per educazione, dico qualcosa tipo: – Ok, ma perché non passi da me stasera? Mangiamo un piatto di pasta e ci salutiamo...
    Pronuncio la frase misurando con cura entusiasmo e malizia. Diciamo che da zero a dieci, uso un otto di entusiasmo e un sette e mezzo di malizia (ma giuro che non lo faccio per me, lo faccio per l'Italia).
    – Grazie, ma stasera sarà proprio un casino. Devo mettere in valigia un anno di vita parigina.
    Lo dice sorridendo. Ed è giusto. Ed è una chiusa che funziona.
    – Aspetta, – dico. – Hai il biglietto dell'aereo nel mio zaino.
    – Il biglietto? Devo ancora fare il check-in online.
    – Ah, no, niente, scusa... Il biglietto c'era quando ci siamo persi dentro al Louvre.
    Lei mi guarda come si guarda uno un po' matto. E poi fa sì con la testa, come si fa coi matti.
    Non ci scambiamo neppure inutili indirizzi e-mail, contatti Skype, cognomi per cercarci su Facebook. Io non lo faccio perché ho il senso pratico di un trentaquattrenne, lei non lo fa perché ha il senso pratico delle americane. Le auguro buon viaggio, con un sorriso largo che vorrebbe comprendere nell'augurio molto più dei semplici tre voli che la aspettano. Lei, occhi verdi e capelli legati, sorride a sua volta e sussurra: – Take care.
    Che in generale vuol dire un mucchio di cose, e in questo caso pure addio.

    Libbe spunta dall'angolo opposto al mio, col mio stesso affanno e la stessa espressione di scusa negli occhi. Abbiamo venticinque, spaccati, identici minuti di ritardo. Ci guardiamo, ci capiamo, e nelle pieghe dei nostri visi il senso di colpa lascia lentamente posto a un'espressione divertita. Sono cose che possono succedere solo a due italiani; i francesi che ne sanno...
    – Allora dove andiamo? – domando.
    – C'è una patisserie definitiva da quella parte, tra un paio di blocchi.
    Io do un'occhiata alla mappa e dico: – Due blocchi da quella parte. Aspetta... No, troppo in là, così me rovini il blog.
    – Il blog?
    – Vieni con me che ti spiego.

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