venerdì 19 marzo 2021

pas d'adieu




     Parigi, banalmente, mi manca. Come, con modi e toni diversi, mi mancano tutte le città in cui ho vissuto. Probabilmente è una cosa che ha a che fare col più generale senso di nostalgia per le cose del passato, che abbiamo tutti e sempre. Che a sua volta ha a che fare con l’ancora più generale desiderio di tornare a quando eravamo giovani, o almeno sfrontati, o almeno più giovani che adesso. Mi sono spostato spesso, nel corso degli anni, diciamo da un certo punto in poi. Così è finita che le città in cui ho vissuto per me rappresentano non solo, o non tanto, luoghi del mondo, quanto piuttosto fasi della vita. Marano è l’infanzia, Roma la prima giovinezza, il Galles la scoperta, Verona la maturità, Lisbona l’evasione e i capelli lunghi, Parigi i conti con se stessi. Monaco è stata zigzagare e raccogliere i cocci. Osnabrück è giocare alle costruzioni, ingegnandosi coi pezzi rimasti nella scatola. Il resto delle città, se ce ne saranno, sarà invecchiare.

    In questi giorni sto cercando casa, che è un’altra cosa che, negli ultimi vent’anni, ho fatto periodicamente e regolarmente. Mentre salto da un sito all’altro, catalogo le ricerche, annoto e cancello opzioni, digito numeri e ripeto frasi a filastrocca, non posso fare a meno di tornare con la testa a tutte le volte del passato in cui mi sono ritrovato a compiere questi passaggi. E non posso fare a meno di realizzare quanto l’operazione sia diventata, col tempo, più faticosa, pesante, dolorosa. All’epoca di Lisbona, in quell’anno folle di Lisbona in cui ho scoperto amore vero e reflusso gastrico, cambiavo casa in media ogni due mesi, con una leggerezza e facilità che confinava in molti punti con l’incoscienza. Invecchiare non significa tanto cambiare, mi dico oggi: invecchiare significa modificare, giorno dopo giorno, la propria percezione del cambiamento. Il rapporto che si ha con la stabilità e le scosse, con le radici e con le rotte. Per quanto possa e sappia dirlo uno che non ha ancora imparato il proprio numero di telefono e il proprio CAP attuali, e gli mancano le radici ma tiene sempre un occhio alle rotte, e a quarant’anni ha un contratto di lavoro che gli scade tra due anni, scritto in una lingua che non è la sua.

     Batignolles era il quartiere degli impressionisti. Al numero 11 del viale di Batignolles, che ormai si chiama Avenue de Clichy, c’era un caffè dove si riunivano Manet e Cezanne, Monet e Degas. Oggi quel caffè non c’è più ma sul muro è fissata una targa che lo ricorda. Me la fa notare Roseline, in una sera di vagabondaggio incastrata dentro le ultime due o tre intense settimane di vita parigina. Di giorno mi stresso tra burocrazia e scatoloni, la sera mi concedo di salutare luoghi e persone. Davvero non hai mai sentito parlare del Café Guerbois?, mi chiede. Davvero, rispondo senza sentirmi in colpa. Perché come fai a sentirti in colpa per non conoscere una delle centomila cose che stanno nascoste dentro Parigi? Mi viene da pensarlo sempre, in questi giorni che invece cerco casa in una pittoresca città qualsiasi del nord della Germania, mentre mi mostrano un appartamento e mi dicono, pensa te, che sto ad appena un quarto d’ora dal centro storico. Ci vai a piedi, mi dicono, al centro storico. Me li guardo, sorrido, faccio un’espressione superiore e: Io la sera passeggiavo per Batignolles, mi verrebbe da urlargli, con tono simile al tono di quell’attore che urla Io stavo col Libanese.

     Che poi non è che abbia niente di speciale, Batignolles, a parte il nome che suona così bene e chissà da dove arriva. Forse è proprio il suo essere per niente turistico, e insieme parigino fin dentro ogni più piccola stradina, ad agganciarti: i bistrots così francesi e veri, le boutiques curatissime e il mercato coperto, i giardini inutilmente romantici. Roseline vive lì. Sono le mie ultime sere parigine e sto chiedendo alle persone che vedo, per salutarci, di portarmi nei loro quartieri, in luoghi sconosciuti ai più ma a loro familiari: un parco cittadino senza pretese, uno scorcio nascosto, il semplice café sotto casa. È un tour che ha preso il nome di pas d’adieu, e l’espressione è l’ultimo regalo che questa lingua, che ho amato tanto senza mai imparare a fondo, mi ha fatto. Io volevo banalmente rendere l’espressione passo d’addio, che però evidentemente non si usa o non si traduce così. Non, mais c’est très cool, mi dice Roseline. Perché se dici pas d’adieu quello che arriva è che in realtà non c’è nessun addio. Pas funziona come negazione: te ne vai, e Dio sa dove, a Monaco, in Baviera, nella terra dei crucchi, a zigzagare e raccogliere i tuoi cocci… ma pas d’adieu, non è mica un addio.

Édouard Manet: Al Café Guerbois

     L’ultima casa che ho visto potrebbe anche andare. È un attico, coi soffitti a spiovente che rubano qua e là centimetri in altezza. La posizione è buona: centrale e comoda abbastanza per il lavoro. L’edificio vecchio e arredato solo in parte: ci sarebbe da riempirlo un po’. Il vero punto debole è il bagno: sanitari malridotti e vasca senza doccia, per quella mancanza di centimetri in altezza che si diceva. Non mi ha fatto un grande effetto, a entrarci dentro, ma chi sa di case vecchie e prime impressioni converrà che spesso bastano una bella pulita e piazzarci dentro un po’ di oggetti propri per iniziare a sentire le quattro mura più familiari. Ho ringraziato il vecchio inquilino, un tipo simpatico che continuava a chiamarmi señor e ogni tanto usava parole spagnole pensando fossero italiane, gli ho detto che ci avrei pensato su e che l’avrei richiamato presto. Prima di tornare a casa, ho fatto due passi rapidi nei dintorni; lo faccio sempre quando vado a vedere appartamenti: mi convinco di abitare già lì, con tecnica vagamente attoriale, e provo a immaginarmici dentro. Mi sono perso tra le stradine pedonali del centro, pulitissime e quasi deserte, e ho fantasticato su come saranno e saremo tra qualche tempo, coi locali aperti, la gente fuori, la birra e le sigarette, la voglia di conoscerci e lasciarci di prima dei lockdown.

     Io la sera passeggiavo per Batignolles, penso mentre metto una firma digitale su un contratto di locazione in pdf. Che poi non ci passeggiavo neanche così spesso, in realtà, giusto in quel periodo che vedevo Roseline, perché di mio abitavo da tutt’altra parte. L’ultima sera mi porta in un bar che si presenta semplice: con vini buoni e prezzi da banlieu, dice. Ha scelto un tavolo d’angolo: ci sediamo e mi chiede se ho già trovato casa, parlando di quella che, a contare e ricordare, è ormai quasi tre case fa. Se è vero che le città sono fasi della vita, allora forse mi manca Parigi anche perché della fase parigina mi manca, banalmente, incontrare qualcuno la sera in un bar in cui non ero mai stato. Le rispondo che sì, almeno all’inizio starò in una residenza che mi offre l’università, poi, con calma e sul posto, cercherò e si vedrà. Ordiniamo due bicchieri di rosso e le do il regalo che le ho portato, un libro di commedie di Molière in versione bilingue, perché a lei piacciono il teatro e l’italiano, e a me piace regalare libri. Dice che è bellissimo e che non se l’aspettava. Penso sia sincera, almeno per la seconda cosa. Scherziamo che non sono poi così avaro come mi pensava lei, mentre il cameriere torna coi bicchieri, e lei conclude che in effetti sono più malato immaginario, facendo riferimento a un episodio che adesso non sto a raccontare ma da cui non esco benissimo. Con Roseline non ci sentiremo per più di un anno, salvo poi riprendere a messaggiarci, sporadicamente, proprio ai tempi del primo lockdown, per raccontarci le lunghe giornate in case troppo piccole, le solidarietà tra vicini, i capelli tagliati corti, le differenze d’approccio tra nazione e nazione, prima marcate e poi via via più impercettibili.

sabato 21 settembre 2019

sotto le stelle del rex - audioracconto
[trailer]

    Prossimissima uscita sarà la versione audioracconto di Sotto le stelle del Rex.
    In sottofondo: una canzone dei Madredeus, un po' di sano jazz della New Orleans degli albori, e ovviamente Paolo e Giorgio Conte.


domenica 8 settembre 2019

magari [testo]


Questo pezzo è nato tra le fessure di Cimiteri.
Vai alla versione audio.

***

e magari morirai ma di vecchiaia
un letto bianco d'ospedale
oppure quello giallo ocra
di una stanza d'altri tempi
in qualche posto di provincia
per le terapie termali

e magari sposerò
la sorella di un'attrice
che ci inviterà alle prime
che mi presterà la voce
se avrò voglia di tacere
se sarà di buonumore
mi reciterà sorrisi

e si congratulerà
ad ogni passo che faremo
della casa a montesacro
dell'arrivo di un bambino
dopo appena pochi mesi
sarà basso come me
avrà la bocca di sua madre
e chissà perché i tuoi occhi

non s'è mai capito bene
se quel verde disperato
fosse voglia di guardare
oppure rabbia sgocciolata
come menta da un ghiacciolo
in un'estate anni novanta
che ogni notte eri più bionda

e magari incontrerai
altri uomini immaturi
meno giovani di me
ma più alti e generosi
e percorrerai altre strade
fatte di altrettante buche
e semafori staccati

e mia moglie abbraccerà
una filosofia orientale
ci costringerà alle ferie
in qualche torrido paese
sua sorella arriverà
e li riempirà di baci
e mi sfiorerà passando
come sfiorano le attrici

come passano anche i sogni
e tu sarai finita in banca
a contare i sacrifici
della gente che non conta
io pubblicherò a mie spese
vecchie storie senza trama
in cui ogni donna ha gli occhi verdi
e ogni città somiglia a roma

e magari invecchieremo con lentezza
come macchie di condensa
sul soffitto di una stanza
e ci chiederemo spesso
hai chiuso il gas mi passi il sale
e solo due o tre volte l'anno
se per caso stiamo bene

fino a che comparirai
dentro una telefonata
e magari allora sì
che ti troverò cambiata
e mia moglie parlerà
con dei gesti che tu sai
che sapete fare voi
e non impareremo mai

e magari arriverai
senza aver citofonato
i capelli biondi tinti
il soprabito bagnato
e il dialogo che avremo
sottintenderà il non detto
posso togliere il cappotto
certo appoggialo sul letto

e magari morirò perché si muore
certamente pioverà
sarete in pochi al funerale
poche frasi pochi fiori
poche pacche sulle spalle
e magari sua sorella
piangerà più di mia moglie

e magari penserò
appena prima di crepare
al bucato ancora steso
alle cose da finire
a una bocca anni novanta
che risponde sorridendo
non ci lasceremo mai
e cascasse pure il mondo
quest'estate andiamo a cuba
io diventerò un'attrice
conteremo stelle insieme
compreremo case al mare
e magari morirò di tanto amore



lunedì 25 marzo 2019

cimiteri

    

    Io non ho paura di morire.
    Ho paura di sciare, di arrampicare, di pattinare, di sbagliare in senso generale e di sbagliare frasi in modo particolare, della velocità quando guidano gli altri e della violenza psicologica, dei semafori lampeggianti, di dire ti amo per iscritto, del dolore fisico, delle precedenze di cortesia; qualche volta dell’altezza e qualche volta del buio. Ma non ho paura di morire.
    C'era questo mio amico toscano che, quando gli parlavo della Francia e di Parigi, mi diceva che lui una volta a Parigi c'era stato e l'avevano portato a visitare camposanti. Lo diceva con accento toscano, che io non ho e non saprei riprodurre. Ma insomma, come la diceva lui, la frase faceva un certo effetto. C'è i camposanti, diceva. Non gli era andata granché giù, questa faccenda. Se stai tre giorni a Parigi e ti portano per camposanti, vuol dire che c'è qualcosa che non quadra in quella città, diceva. Nella migliore delle ipotesi, diceva, è una città infelice.
    Non so se le sue parole mi abbiano in qualche modo influenzato o se sia una ritrosia già bell'e mia verso i camposanti. Ma insomma ho lasciato passare tre anni di vita parigina, in cui sono successe cose non sempre esaltanti e ho visitato luoghi non sempre memorabili, prima di iniziare a considerare di entrarci dentro, a un camposanto. Considerare diPerché non è che sia stata neppure un'idea mia.

    Libbe ha su di me un forte potere di persuasione, che esercita in maniera implicita, indiretta, velata, ma assolutamente infallibile.
    Così quando mi ha chiesto Mi accompagni a un camposanto?, le ho raccontato di questo mio amico toscano, ho provato invano a riprodurne l'accento, le ho detto che qualcosa in Parigi non quadra mentre lei faceva sì con la testa, le ho detto che Parigi deve essere una città infelice mentre lei faceva no con la testa, ma poi ho comunque risposto Ma sì, certo, scherzi?, ti accompagno al camposanto.
    Ne ha scelto pure uno un po' sfigato, almeno a giudicare dalle stellette sulle guide. Siamo usciti dal métro e l’ho seguita. Abbiamo attraversato il ponte. Cambiato marciapiede. Passato l'imponente cancello d'ingresso. E poi mi sono voltato e ho dovuto ammettere che, camposanto o no, eravamo in uno dei posti più silenziosi e suggestivi, che in tre anni di peregrinazioni parigine avessi incontrato, per ammirare e fotografare la Tour Eiffel.

    Per il cimitero, mia nonna coltivava zinnie e comperava crisantemi. Mi piaceva, accompagnarcela. Mi annoiava ma mi piaceva. La aiutavo a portare i fiori fino alla cappella e poi la lasciavo lì che trafficava e mi occupavo di recuperare acqua. Quando tornavo, lei era intenta a liberare i gambi delle foglie in eccesso. Poi metteva l’acqua nei vasi. Poi regolava la lunghezza dei gambi, tagliuzzandoli fino a che non fossero della misura giusta per emergere dall’estremità del vaso senza apparire scompostamente in erezione.
    I resti dell’operazione erano raccolti in fogli di giornale spalancati sul pavimento di sampietrini. Quando aveva finito, accartocciava i fogli su sé stessi e ne veniva fuori un pacco informe, che andavo a gettare nei bidoni all’ingresso. Li buttiamo quando usciamo, diceva lei, non preoccuparti. Ma io preferivo tenermi in movimento: un po’ per sentirmi utile, le dicevo; un po’ per sentirmi vivo, non le dicevo.
    Quando tornavo, la trovavo che puliva il pavimento della cappella. Dei fiori vecchi, salvava il salvabile e buttava via il resto. Poi giocava a ridistribuirli, i fiori vecchi salvabili, mescolandoli ai nuovi, affinché ogni vaso avesse un effetto d’insieme godibile, o almeno decente. Il suo tocco finale era uno spruzzo di varechina nell'acqua: serviva a evitare che si producesse quel tipico cattivo odore di fiori morti di cimitero, diceva. Se metti la varechina, l’acqua si mantiene profumata. Ma non fa male ai fiori?, suggerivo io. Uno spruzzo, si difendeva lei. Uno spruzzo non fa male.
    Poi andava a sedersi sulla tomba dirimpetto, le mani sul grembo, gli occhi sulla foto di mio nonno. Sospirava: di fatica, di solitudine e di fine lavoro.
    Due minuti e andiamo, diceva.
    Nessuna fretta, dicevo io.
    E mi sedevo di fianco a lei.

    La mia prima ragazza sognava di fare l’attrice. Aveva diciassette anni, usava parole e concetti un po’ a caso, e sembrava ogni sera più bionda e innamorata.
    Ti va di andare al mare domenica prossima?, le chiedevo.
    Solo se mi porti a Cuba, rispondeva.
    Anziché fare progetti concreti, teorizzavamo su futuri di fantasia: viaggi con mezzi improvvisati, lavori che non erano lavori, braccialetti portafortuna brasiliani usati come fedi, case a dieci metri dalla spiaggia. Ricordo lunghe passeggiate e promesse tanto estreme e implausibili che, a distanza di tempo, mi chiedo se le facessimo credendoci davvero. Io forse sì; lei forse no. Del resto, lei usava parole e concetti un po’ a caso. Ce ne andremo a stare insieme, compreremo casa al mare, e magari morirò di tanto amore, diceva.
    Erano gli anni Novanta: io non ero mai stato a Parigi, mia nonna era in buona salute, mio nonno era già morto da dieci anni, la mia prima ragazza sognava di fare l’attrice.
    Andiamo al cinema?, le chiedevo.
    Giriamo un film, rispondeva.
    Era evidente che non sarebbe durata. Ammesso che non ci fossero ragioni più profonde, io ero troppo basso e lei era troppo bionda, perché potesse durare.
    Quando glielo facevo notare, lei mi dava un bacetto sulla guancia. Allora io le dicevo Un giorno tu mi lascerai. Allora lei rispondeva Smettila, che sembriamo Giuda e Gesù Cristo.
    Aveva spirito, la mia prima ragazza.
    Ovviamente è finita che lei m’ha lasciato, io non l’ho sposata e lei non ha fatto l’attrice. Senza che ci sia alcun nesso tra le prime due cose e l’ultima, immagino.




    Io non ho paura di morire. Nel senso che, se dopo viene qualcosa, non ho paura di quello che viene dopo; e se invece non viene niente, amen. È il sapere che c’è una scadenza ma non sapere quando scadrà, che mi disturba un po'. Non ho paura di morire, ma ho paura di non avere il tempo di finire le cose che devo finire e iniziare quelle che ho in mente di iniziare.
    Tipo il bucato e la colazione.
    Le email arretrate.
    Le corde nuove alla chitarra.
    Imparare a fare la carbonara come un vero romano e la pizza come un vero italiano.
    Iniziare a fumare. Fumare e poi smettere, per capire se è davvero così complicato.
    Lo yoga e la meditazione.
    Gli origami.
    Lavorare per davvero.
    Sposarmi, o decidere definitivamente di non farlo.
    Avere un bambino e rimbambirlo di chiacchiere, o decidere definitivamente di non averlo.
    Finire di scrivere e finire di leggere.
    Calvino, Camilleri, Joyce.
    New York.
    La maratona di New York.
    Vivere in altre due o tre città.
    Ritornare a Roma.
    L’università, il blog, il corso di lettura ad alta voce.

    – Il mondo è pieno di ragazzine che vorrebbero fare le attrici e ragazzini che vorrebbero sposare le attrici, – commenta Libbe, che sa sempre come e quando cambiare discorso.
    Siamo arrivati davanti alla tomba di Fernandel. Lunga e nera e con una grossa croce sopra. Mi torna in mente Don Camillo. I film e il libro, e io bambino che li guardavo o leggevo. Mi tornano in mente le mattine che non andavo a scuola perché stavo male o fingevo di stare male, e c'era nonna in casa, e io mettevo su uno a uno tutti i vhs della collana. Mi torna in mente la Signora Cristina che dice che lei vuole un funerale senza musica perché la morte è una cosa seria.
    Il cielo minaccia pioggia. È triste, la pioggia dentro i cimiteri. Sono tristi gli ombrelli, dentro i cimiteri. Tristi e un po' comici. Guardo la foto di Fernandel e lo immagino che parla col crocifisso sopra la sua tomba, che magari adesso che è morto gli viene anche più facile.
    Tutto questo mentre Libbe sta dicendo che non puoi vivere a Parigi e non vederne anche i cimiteri, con tutti quei morti famosi che ci stanno dentro. E che a lei i cimiteri piacciono ma non le piace camminarci da sola, e per questo mi ha chiesto di accompagnarla. E che sono stato proprio gentile ad accettare, nonostante non mi piacciano i cimiteri e lei lo sa benissimo che da solo non ci sarei mai venuto.
    Continuo a innamorarmi di donne che vorrebbero fare le attrici. Credo mi piaccia, di loro, questo sentirle sempre un po' vere e un po' no; e non capire mai se facciano sul serio o no; e allora non sentirmi in colpa quando non so rispondere alla domanda se le ami davvero o no.
    – Io, quando muoio, voglio essere sepolta a Père-Lachaise come Yves Montand. 
    – ...
    – Oppure a Montmartre come Jeanne Moreau.
    – ...
    – E tu?
    – ...
    – ...
    – Dobbiamo proprio fare questo gioco?
    Libbe non è una che accetta domande come risposte. Dobbiamo proprio fare questo gioco. E allora le dico che io preferirei vicino a nonno, a nonna e a tutti gli altri della famiglia.
    E per il resto della passeggiata parlo pochissimo e rifletto sulla morte, che è una cosa che probabilmente rimandavo da tanto tempo e non sono mai stato bravissimo a fare. Ed è lì che stabilisco che non ho propriamente paura di morire, ma è sempre lì che mi viene anche una certa ansia di cose da finire e da iniziare. Ed è probabilmente ancora lì che incomincio ad avere un rapporto conflittuale col tempo che passa e le città in cui vivo. E sicuramente, infine, è lì che per la prima volta mi scopro a pensare che magari è veramente ora di lasciare Parigi.
    Forse quest'ultima cosa, oltre a pensarla, la dico. Perché sento la voce di Libbe che domanda:
    – E dove vorresti andare?
    – Non lo so.
    Libbe non è una che accetta non-risposte come risposte.
    – Dove?
    Non ricordo cosa dico, ma di sicuro non dico né Cuba né New York. Forse dico Londra; forse Dublino.
    È iniziato a piovere leggero leggero.
    Libbe accelera per uscire e andare a ripararsi da qualche parte.
    Io rallento di proposito, perché voglio godermi per qualche istante il panorama dell'ingresso in semisolitudine.
    La Tour Eiffel e il Palais de Chaillot, dietro l'imponente portone monumentale. 
    Parigi è bellissima ma in lei c'è qualcosa che non quadra.
    Da dentro, arriva una ventata di fiori morti di cimitero.
    Tutt'intorno, piove una pioggia che sembra la neve dei Morti di Joyce.
    Io, per me, vorrei un funerale senza musica e con gli ombrelli.